Un nuovo modello sostenibile potrebbe permettere ai produttori di olio di palma di continuare a espandere la produzione senza distruggere preziose foreste: è la proposta del gruppo statunitense World Resources Institute. La crescita della domanda di olio di palma, tanto per l'industria alimentare che per il nuovo comparto dei biocarburanti, ha portato a un'improvvisa fame di terra, che si è tradotta in un'impennata nella conversione di foreste naturali. Questo è particolarmente evidente nel Sud-est asiatico, dove milioni di ettari di foreste torbiere sono stati abbattuti e drenati, con un conseguente aumento delle emissioni di carbonio, oltre all'impatto sulla biodiversità, sulle specie protette, sul sistema idrico e sulle popolazioni locali. Un dramma locale, di proporzioni globali.
Il WRI punta il dito sul fatto che l'apertura di una nuova piantagione di olio di palma è un'operazione economicamente redditizia proprio per il suo impatto distruttivo: infatti la produzione di legname è spesso il vero obiettivi di gran parte di questi progetti agricoli. Secondo il WRI basterebbe assicurarsi di acquistare olio di palme proveniente da piantagioni che non sono state create abbattendo la foresta.

Una soluzione che non convince numerose associazioni ambientaliste, tra cui Friends of the Earth e Greenpeace. Il business dell'olio di palma, sostengono, è un mercato globale. Incrementare l'utilizzo di questo prodotto, ad esempio istituendo incentivi all'utilizzo di biocombustibili, crea di fatto un aumento della domanda di questa merce, mentre i terreni coltivabili sono già insufficienti. Anche se una piccola quota di questa domanda dovesse richiedere un prodotto certificato, il suo contributo all'aumento della domanda globale si traduce comunque in un incentivo ad abbattere nuove foreste.

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