
L’isola della Nuova Guinea ospita una delle più ricche biodiversità del modo, e le sue foreste svolgono un ruolo chiave nella protezione del clima globale. Al contrario, la deforestazione non porta né sviluppo né benessere, privando le comunità locali della fonte delle loro risorse: dal cibo, ai tessuti, agli strumenti, ai luoghi sacri. Infatti, grazie a un castello di imprese registrate in paradisi fiscali come le Isole Vergini Britanniche, le compagnie del legno dichiarano prezzi di vendita del legname irrisori e acquisti di materiali a prezzi esorbitanti (tutti da proprie consociate) e in questo modo dichiarano profitti quasi nulli, e quindi non tassabili.
Nel 2014, il prezzo medio dei tronchi prodotti da grandi esportatori come il Camerun e della Birmania era di 388 dollari al metro cubo, quasi il doppio del prezzo dei tronchi della Papua Nuova Guinea, che non arrivava ai 210 al metro cubo.
E’ quanto descritto dal rapporto recentemente pubblicato dall’Oakland Institute, che descrive l’industria del legname come la "grande rapina del legno”. Guida la rapina il gigante malese Rimbunan Hijau, da decenni impegnato al sistematico saccheggio delle foreste della Papua Nuova Guinea. Secondo il rapporto, le 16 consociate locali di Rimbunan Hijau risultano essere in perdita e non hanno pagato un dollaro di tasse, pur gestendo un quarto di tutte le esportazioni di legname del paese. Un business in continua espansione, malgrado dichiari zero introiti.
Oramai, circa un terzo delle foreste del paese sono state date in usufrutto a grandi compagnie, malgrado questo sia vietato dalla Costituzione, che assegna le terre ai clan tribali.