E' lo scenario delle tar sands: alberi abbattuti a perdita d'occhio. Al loro posto avanza il catrame. Gli alberi abbattuti a migliaia, fanno spazio alle miniere di sabbia bituminosa, tar sand, che viene scavata in grigi laghi artificiali, pullulanti di veleni, raffinata in impianti che rilasciano fumi appestanti. Per Greenpeace, quello che avviene nell’Alberta Settentrionale, in Canada, è un vero e proprio patto col diavolo: foreste in cambio di petrolio, ed è per questa ragione che nelle ultime settimane l'associazione ambientalista ha bloccato diversi terminal.
Un oleodotto pompa ogni giorno 800.000 barili di petrolio dall'Alberta agli Stati Uniti, e un'altro è in costruzione, oltre mille chilometri, per spostare altri 525.000 barili al giorno. L'oleodotto già in funzione ha già registrato 65 perdite di petrolio (13.777 barili), molte delle quali nel mezzo di una delle aree più sensibili del Canada: le foreste pluviali temperate della Colombia Britannica. Il summit dei capi tradizionali delle First Nations (quelli che da noi per secoli sono stati chiamati indiani d'America) ha detto chiaramente che i popoli nativi non vogliono quella roba.
La Shell, la British Petroleum e la Suncor sostengono invece che il petrolio è necessario, e che lì sotto, mescolato a sabbia, protetto da un milione di ettari di foresta boreale. Basta abbattere tutto e il gioco è fatto. Secondo il Global Forest Watch, il solo abbattimento degli alberi comporta il rilascio in atmosfera di 873 milioni di tonnellate di CO2. Per non parlare del petrolio bituminoso, che inquina già quando viene estratto e purificato.
E ogni pieno di benzina, un albero secolare che se ne va.