In dieci anni le multinazionali del cibo hanno devastato un’area di foreste una volta e mezzo l’Italia, per sostituirle con piantagioni di soia, palma da olio e allevamenti di bestiame. Lo rivela Greenpeace, con un nuovo rapporto, “Countdown to extincion”, sottolineando che queste imprese si erano impegnate a diventare ad acquistare solo prodotti senza deforestazione. Un impegno restato sulla carta.
 
Dieci anni fa, alla Conferenza ONU sui cambiamenti climatici COP16 di Cancun, le multinazionali aderenti al “Consumer Goods Forum” (CGF), si sono impegnate a fermare la deforestazione attraverso l’approvvigionamento “responsabile” dei quattro prodotti più strettamente associati alla distruzione delle foreste su larga scala, ovvero olio di palma, cellulosa e carta, soia e bovini. 
 
Greenpeace ha scritto a oltre 50 aziende, tra commercianti, rivenditori e produttori  chiedendo loro di dimostrare i progressi verso acquisti di materie prime privi di deforestazione. Solo alcuni di loro hanno risposto a tutte le informazioni richieste. E nessuno dei 50 è stato in grado di  dimostrato un'azione "significativa" per porre fine alla deforestazione.
 
Non stupisce quindi che nei cinque anni successivi all’impegno assunto, la produzione agro-industriale di questi prodotti ha causato la distruzione di 30 milioni di ettari di foresta (pari alla superficie dell’Italia), prevalentemente in America Latina ( (95 per cento) e nel Sud-Est asiatico. Benché dati precisi per il quinquennio successivo non siano ancora disponibili, Greenpeace fa notare che la perdita di copertura forestale sia continuata a crescere, e questo suggerisce una perdita di almeno altri 50 milioni di ettari entro  il 2020.
 
In Brasile l’area coltivata a soia è aumentata del 45% a partire dal 2010. Nello stesso tempo,  la produzione di olio di palma indonesiano è cresciuta del 75% mentre gli impatti ambientali della produzione di cacao in Costa d’Avorio sono cresciti dell’80%. E il peggio deve ancora venire, avverte Greenpeace: entro il 2050, infatti, è previsto un aumento del consumo di carne a livello globale del 76%, un aumento della produzione di soia del 45% e dell’olio di palma del 60%. 
 
Non si tratta solo di foreste, ovviamente: l’agricoltura intensiva e l’allevamento sono tra i principali fattori di rilascio in atmosfera di gas serra. Secondo le stime di Greenpeace, se non ci sarà un sostanziale cambiamento, entro il 2050 le emissioni di gas serra cresceranno del 77% rispetto al 2009. “Il messaggio della comunità scientifica è chiaro -sottolinea Greenpeace -Anche la commissione scientifica dell’ONU sul Clima, l’IPCC (Panel intergovernativo sul cambiamento climatico presso le Nazioni Unite) che chiaramente avvertito che la riforma del sistema alimentare per garantire la protezione delle foreste è un elemento essenziale nella lotta al cambiamento climatico”.
 

 

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