Si chiama "Biochar", o bio-carbonella, e sembra la nuova trovata per affrontare il cambiamento climatico.
E' stato scoperto nelle "terre nere" degli indios amazzonici, nelle aree in cui gli indios praticavano l'agricoltura tradizionale "taglia e brucia". Questa metodologia, letale se praticata su vasta scala, è stata per millenni la base dell'agricoltura degli indios amazzonici, ed era resa compatibile dal basso tasso di popolazione rispetto alle dimensioni della foresta. Nei campi tradizionali degli indios, la terra è nera a causa delle grandi quantità di carbone incorporate negli anni. Il carbone rende fertile il suolo, rilasciando molto lentamente i nutrienti, e assorbe l'umidità in eccesso. Il carbone progressivamente accumulato nel suolo può essere considerato un'altra forma di sequestro di carbonio atmosferico, in quanto si preserva molto più a lungo del legno che decompone in superficie (la longevità del biochar è però ancora tutta da verificare sul piano scientifico).


Il biochar, praticato nell'ambito della coltura tradizionale o in fattorie su piccola scala (per esempio carbonizzando gli scarti agricoli), può quindi essere una forma che coniuga pratiche agricole basate sull'efficienza naturale, con lo sforzo per rallentare il riscaldamento globale del pianeta.
Praticata su larga scala però potrebbe portare a giustificare la distruzione di ampi tratti di foreste naturali, o peggio la loro combustione, provocando effetti esattamente contrari a quello desiderati: il massiccio rilascio di CO2 in atmosfera, oltre alla perdita di autentici tesori di biodiversità. Ma quando si apre una nuova prospettiva di business, è difficile che qualcuno non ci salti sù. E' il caso dell'impresa Carbonscape, che è già partita alla caccia di 930 milioni di ettari di terreno in tutto il mondo per la produzione di carbone. Il piano è di produrre più carbone di quanto emesso con l'utilizzi di combustibili fossili, una quantità immensa. Ma la domanda è: cosa bruciare per produrre tutto questo carbone?

 

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